La piazza del Diamante
Nei romanzi di Mercé Rodoreda si trovano tre condizioni essenziali: una immaginazione del tempo, una immaginazione della storia e una immaginazione della lingua e il racconto che il mondo sia l'insieme – proprio come diceva Wittgenstein, ma con più colori del filosofo –, delle sue rappresentazioni e che queste rappresentazioni siano essenzialmente caratteri, tipi, umani. Così, se altri scrittori hanno unità di tempo (anche atomiche, Virginia Woolf, per esempio), o unità di spazio (anche atomiche, più spesso, a grappoli, come Thomas Mann), Rodoreda ha unità umane. È sugli uomini e sulle donne – e talvolta sugli angeli – che avanzano le sue storie, è su di essi che si avvolgono. Questo accade perché Rodoreda è una scrittrice più colta dei personaggi che racconta, e questa cultura – le letture, l'aver partecipato a moti antifascisti, l'aver visto posti diversi in differenti età della vita, essere una scrittrice spagnola di lingua catalana, – non solo non l'ha allontanata dall'umano, ma l'ha avvicinata. Rodoreda descrive l'umano non dall'interno e non dall'esterno, ma accanto, e il suo essere più colta la fa scrivere col cervello dunque col cuore. Potrebbe essere l'aria del tempo, del suo – è nata all'inizio del Novecento ed è morta quasi in fine secolo –, un tempo che si riappropria della coscienza che la cultura non va, necessariamente, a detrimento dell'immaginazione. L'essere una scrittrice spagnola di lingua catalana impone la capacità di considerare, contemporaneamente, due punti di vista non opposti ma di certo non sovrapponibili, e soprattutto, l'imparare da capo, per frequentazione e non per osmosi, la lingua che dovrebbe essere quella dei sentimenti (cosa che capita, più avanti nel tempo e per scelta politica, per esempio, ne Il Posto di Annie Ernaux). È così se altri hanno flussi di coscienza o piani spaziali, Rodoreda ha un flusso tutto umano, in mezzo al quale sta, e resta, chi legge.
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